Una ragazzina di 12 anni bussava alla porta del laboratorio. Aveva in testa un cappellino alla francese di color glicine, sottobraccio un incarto di tessuti e fili, aghi, spilli, in un bauletto.
«Ma che ci faccio qui?» pensava sotto la pioggia di una mattina di novembre.
Una signora sulla settantina le aprì la porta senza esitare.
«Cara, che fai con questo freddo? Sembri un gattino bagnato. Entra subito». Le sue scarpe zuppe lasciavano orme evidenti su quel pavimento immacolato, e se ne vergognava mentre la signora, in ciabatte da casa, non sembrava curarsene.
«Hai bisogno di cucire?». Quelle parole la fecero sussultare. Sì, aveva bisogno di cucire. E sì, ancora prima che le fosse chiesto, non sapeva perché. Quando una semplice faccenda diventa un’esigenza? Rosa non aveva risposte.
Sua nonna era una stimata sarta napoletana, e le aveva sempre detto che la sartoria rappresentava una vocazione ancor prima di essere un lavoro; sua zia non sapeva attaccare un bottone ma da sempre si affidava a una schiera di brave sarte per occuparsi dei vestiti nei giorni di festa. Poteva pensare che la sartoria facesse parte della sua vita, ma ancora non aveva capito quanto ne avrebbe fatto parte realmente.
In quella grigia mattina autunnale aveva sentito il bisogno di entrare in quel laboratorio senza sapere se sarebbe stata ben accolta o malamente scacciata.
Tutt’attorno si vedevano ritagli di tessuto. Un manichino in attesa di essere vestito la guardava entrare, a terra qualche ago aspettava di essere raccolto per ricominciare a lavorare, e dalla radio una vecchia canzonetta.
Dai nudi piedini, le vesti a brandelli, guardava i gioielli in un gran magazzin, quand’ecco un signore le dice…
«Conosci questa canzone?»
Un ciondolo d’oro è pronto piccina per te, qual giusto compenso di un’ora d’amore per me…
«C’è una ragazzina che ammira i gioielli senza poterli comprare, poi un signore le si avvicina e le dice che le avrebbe regalato un ciondolo d’oro a patto che lei fosse andata con lui, insomma, intendo a letto». La signora sogghignò mentre raccoglieva uno di quegli aghi, poi si sedette e guardò in alto, sentendo un’aria lontana nel tempo. Cominciò a cantarla ad occhi chiusi: «Ne uscì dopo un’ora col ciondol donato, lo sguardo offuscato e sul viso il rossor. Le parve la gente ridesse d’incanto, scoppiando in un pianto quel ciondol gettò. Vedi cara, la ragazza aveva perduto l’onore per un ciondolo d’oro. Per te è cosa da poco? Chissà se la ragazzina si sia mai ripresa da quest’onta».
La signora stava parlando da sola o con lei?
Prese a infilarsi uno dei ditali che affollavano la scatola di latta di fronte a lei.
«Signora…» disse timidamente Rosa. «Mi spiace, non conosco questa canzone».
«Oh non importa, è solo una canzonetta. Prendi, infila l’ago per me». Le passò una matassa di fili da imbastire dai quali Rosa, presumeva, doveva sfilarne uno. Lo fece, prese un ago da terra e intentò di compiere l’operazione.
«Infilare l’ago è il primo passo per saper cucire. Ci vuole tempo la prima volta perché devi imparare a prendere le misure con la grandezza del filo e la piccolezza della cruna dell’ago. All’inizio sembrano non essere compatibili, ma poi vedrai che lo saranno».
Lo saranno di sicuro, pensò Rosa, e cercò di far combaciare quest’operazione con il tempo che si impiega per allacciarsi le scarpe: deve sembrare una faccenda quotidiana, che faccio con disinvoltura, pensava.
La signora non badava a lei, aveva poggiato con naturalezza i piedi sopra un piccolo sgabello di legno e, inforcando i suoi occhiali, si apprestava a preparare una pezza di tessuto piegandola in più parti.
«Prenditi il tuo tempo» le disse, leggendole nel pensiero. «Cucire è un atto atemporale e del tutto personale”.
«Anzitutto devi rendere il filo appuntito come una lancia così che l’inserimento risulti più facile. Fai così». Inumidì l’estremità del suo filo bagnandolo con la lingua e poi lo strinse tra due dita fino a schiacciarlo.
Rosa ne rimase affascinata e un po’ disgustata. La bocca di quell’anziana poteva contenere un sacco di schifezze, eppure il gesto le sembrò di una naturalezza tale da destare in lei l’ammirazione che solo l’esperienza può suscitare. Provò a replicare l’azione, succhiando letteralmente il suo capo di filo, ma le parse una cosa inefficace alla riuscita della procedura. Il suo ago infatti non voleva saperne di essere trafitto dal filo da imbastire e quando la signora iniziò a cucire lei era ancora ferma al primo passaggio.
«Non credo di riuscirci in questo modo» si sentì di asserire in tutta onestà.
«Certamente, le cose non sono facili all’inizio”. La signora neanche la guardava. «Se ti scoraggi alla prima difficoltà vuol dire che non possiedi nemmeno una delle tre P.”
Le tre P? e cosa sarebbero queste tre-ppi? Non osò chiedere.
«Se non hai la Passione non comincerai mai a cucire. È un atto di devozione, talmente complesso che necessita di una spinta innata, qualcosa che ti viene da dentro. Cosa ti piace fare, cara?»
«Beh, mi piace cucire. O meglio, non so se mi piace, so che mi piacerebbe imparare».
La signora continuava a inserire e far uscire l’ago nella sua pezza di tessuto, creando dei punti. Sembrava ignorare la sua risposta.
«Anche io entrai in un laboratorio di cucito un giorno di tanti anni fa, quasi per caso, perché mia madre mi disse: è ora che tu apprenda un mestiere. Ho infilato il mio primo ago quel giorno stesso, ci ho messo una manciata di minuti, e da lì non sono più uscita, è come se oggi fossi ancora lì, con la signorina Iucci ad ascoltare le sue lezioni e le sue canzoni».
Mentre la Signora parlava, i suoi punti le venivano tutti uguali, tutti con la stessa lunghezza. Sembrava una macchina. La Signora guardò la ragazzina che impacciata si impegnava con tutta se stessa eppure non riusciva. Si intenerì.
«Vuoi sapere come? Devi fare in modo che il tuo ago sia pronto ad accogliere il filo, tienilo ben saldo e non farlo traballare».
Rosa riuscì improvvisamente nell’impresa. «L’ho fatto!» Un gridolino di realizzazione accompagnato dal suo più spontaneo sorriso.
«Bene» disse l’anziana signora senza scomporsi. «Ora ti mancano le altre due P, ma verranno col tempo».