Si sa, l’olfatto è importante. Identifica un luogo, un ricordo o una persona.
Entrando in un bar riconosciamo l’odore di caffè, in un panificio quello del pane e in un’enoteca quello di salumi e vino. Se qualcuno si fosse mai chiesto quale sia l’odore in una sartoria è solo perché non ci è mai entrato, altrimenti lo riconoscerebbe subito.
Quando si entra in una sartoria si ha la sensazione di essere fuori dal tempo, in un luogo misterioso in cui una cosa piatta e informe diventa quasi per magia un abito da sera. Ogni stoffa che viene lavorata da una sarta, vissuta, tagliata, cucita e ammorbidita dalle mani di chi sa fare ha un odore rassicurante. È l’odore di un vestito nuovo.
L’odore acre del centimetro che si scalda attorno al collo del sarto. L’odore del ferro del ditale che impregna la pelle del dito. L’odore del vapore che sale dall’asse da stiro e invade la stanza.
Poi c’è il rumore. Quello delle grandi forbici che si aprono e si chiudono sul tavolo di legno, il rumore del pedale della macchina da cucire e quello quasi impercettibile dello spillo che cade a terra, e che forse si smarrirà tra i ritagli di tessuto e i pezzi di filo da imbastire.
E per quanto possa sembrare strano, c’è anche il gusto. Ed è quello di un tessuto che prende forma, di ore passate a rifinire un’asola, a perfezionare un sottopunto, a dover sfasciare tutto per poi ricominciare, il gusto di compiacersi di aver fatto un buon lavoro. Il gusto di sapere che ciò che si è creato sarà indossato per un evento, per un matrimonio, un colloquio di lavoro, una cena, un viaggio.
E per la sarta, quel gusto supera di gran lunga il dolore dell’ago che punge le dita.
Marina Mannucci