Sara è un fiume di parole seduta al tavolino del bar con un amaro in mano.

Ancora non ho iniziato a farle domande che lei le sta facendo a me, parla di consapevolezza di sé, di visione della realtà e di quadri di Van Gogh che riesce a vedere anche in una sedia di ferro battuto.

“Ma non abbiamo ancora parlato di arte” mi dice. “Ma come? E questa non è arte?”

Dopo un veloce brindisi iniziamo.

Iscritta all’Accademia di Belle Arti con indirizzo restauro “perché così avrei potuto trovare lavoro, mi dicevano” in realtà si dedica alla pittura sin da subito con conseguente abbandono degli studi. L’incontro con la filosofia di Avasa, dopo uno scetticismo iniziale, le fa avere un risveglio dei sensi totale, tanto da tenere il nome d’arte che Avasa stesso le ha dato: ANAM, assenza di cose, in sanscrito.

Capitolo 1. Il risveglio e Bodhi Avasa. “Un giorno di due anni fa ho avuto un risveglio dei sensi, ho visto la realtà come è e ho preso consapevolezza del tutto.”

Il Tutto, la realtà stessa, il percepibile e il non percepibile. “Prima dell’incontro con la spiritualità avevi già un’idea di questo Tutto?” Sì, mi risponde, lo aveva quando in 3° media una sua compagna la sfidò ad una gara su chi avrebbe disegnato meglio il Bacco di Caravaggio. “Una volta consegnato il disegno a matita al mio professore, l’ho guardato chiedendomi se fossi davvero stata io a farlo. Lì ho avuto la certezza che qualcosa di buono lo sapevo fare”. Sara si meraviglia di ciò che crea come se non avesse avuto lei il pennello in mano in quel momento, ma dietro alle sue insicurezze e sfiducie sa per certo che un giorno il suo talento sarà riconosciuto. E quando lo dice non è né pretenziosa né egocentrica, lo sa perché ce l’ha dentro.

Durante uno degli “incontri tra amici”, Avasa è riuscito a trovare il linguaggio giusto per lei, perché “ognuno di noi ha bisogno di trovare qualcuno che parli il suo linguaggio, al fine di comprendere meglio cose che non sappiamo spiegarci”, finendo per fare di una filosofia un modo di vivere. Anche se lei ci tiene a sottolineare: “non è spiritualità quella che caratterizza la mia vita. Non c’è definizione, è vita e basta”.

Capitolo 2 – I tarocchi.

“Cosa c’entrano i tarocchi nella tua vita?”

“I tarocchi sono un gioco troppo serio”, mi risponde. “Ho iniziato perché li dovevo dipingere su commissione e per lungo tempo mi sono portata in borsa un mazzo di tarocchi di mio fratello. Un giorno mi è stato chiesto di farli e per gioco ho iniziato. Non pensavo di saperli fare, invece ce l’ho fatta. Ero in connessione con l’altro e ci sono riuscita”. Visto che ci sono gioco anche io, mi faccio leggere le carte, e questo porta ad un break di una decina di intensissimi minuti.

Capitolo 3 – Arte.

“Chi è il personaggio della tua arte?” Risponde secca. “L’emozione”.

Non insisto perché la risposta dice tutto, e chiedo “Quanto i tuoi ‘giochi’ influenzano la tua arte?” Altra risposta secca: “Tutto influenza l’arte, così come tutto influenza tutto, dalle relazioni alla vita, al fatto che io e te siamo qui stasera a parlare di questo”.

“Dov’è che dipingi più volentieri?” “Bella domanda – mi fa – non ho ancora trovato un mio tempio, ma lo troverò. Lo sento”.

Dopo una serie consistente di esposizioni (Alla Biennale della Creatività di Verona, a Piacenza, a Bologna, a Firenze e nelle Marche) e la vincita del premio speciale della critica nel concorso “Libera l’arte” e il primo premio nel concorso “Montegranart”, entrambi nel 2011, non ha in vista alcun programma. Quando le chiedo quale delle sue mostre le sia piaciuta di più, lei replica “neanche una”, e la sua sincerità mi blocca. Mi piace.

Marina Mannucci

“Una rana si avvicina allo stagno. Si tuffa. Spalsh.” Un paio d’ore con Sara Lautizi, tra arte e trascendentale.: commenti

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